La prima fatica è vincere il pensiero “Se sa di tappo son fregato”. Perché? Perché se sa di tappo mi sono giocato una possibilità sulle 40 disponibili. No, non ne ho comprato 40 bocce: ne hanno fatto 40 bocce. Credo non rientrino delle spese manco volendo. Più un esperimento che un’etichetta, al suo esordio con il millesimo 2015. Ottenuto da uve catanese bianca, in agro di Marsala, contrada Bausa, questo vino è parte di un progetto più ampio che coinvolge il vivaio Paulsen e che intende anzitutto salvare dall’oblio vitigni pressoché estinti, quindi verificare se sussistano le condizioni per cavarne vino.
La macerazione a contatto con le bucce si prolunga per circa sei giorni. Niente legno e, ça va sans dire, pratiche di vigna e di cantina che non sbagliereste a definire sussurrate. Mi muovo con circospezione e confesso la mia totale diffidenza per una scelta così estrema. Per indagare il fenomeno provo a contattare il produttore ma dicono che viva in una conca del trapanese nutrendosi di soli lieviti apiculati. Impossibile da raggiungere se non a dorso di mulo. Leggo qualcosa propalato dall’etere: ne so forse di più ma il vino continua a essere uno sconosciuto.
Parto da una considerazione critica che vale, come sempre, fino al recinto di casa mia: dovendo provare per la prima volta un’uva recuperata dall’estinzione, avrei voluto saperne senza l’intervento di peso della macerazione con le bucce. So che è tecnica diffusa che non disdegna affatto le varietà rare. Qualcosa di analogo, ad esempio, ha fatto Roberto Pusole con il suo misterioso Cannonau Bianco (non vinificato in bianco, sia chiaro, ma ottenuto da una misconosciuta varietà a bacca bianca). Nino Barraco avrà valutato la scelta: vista la continua ricerca di nuovi percorsi, che è pronto ad abbandonare con la stessa determinazione dimostrata nel cercarli, non ne dubito. E, come in un manifesto, dichiara che tornare indietro è necessario se percorrere un tracciato pregiudica la lettura del terroir. Tuttavia io esprimo preferenze, non giudizi. E dovendo capire qualcosa di un’uva che per la prima volta incoccia la mia traiettoria, vorrei non dovermi distrarre. E la macerazione in genere mi distrae parecchio.
La puerilità di questa mia affermazione è ovviamente sconfessata dall’attrattiva mistica che può esercitare su di me un vino georgiano. Ma ovviamente taglierò quest’ultima frase durante l’editing.
Il primo impatto è vinoso e proteico, poi garofani, nocciole, canfora e salamoia. Scaldandosi e respirando svela cera d’api, miele di lavanda e tracce di zolfo. Sorso teso dalle durezze, esposte sul versante di una mineralità salina e di un grip tannico in nulla remissivo. Mi muovo dentro un reticolo in cui ogni maglia è di segno opposto: trovo un accenno al mou salato, per un’illusione di dolcezza che non c’è e che non so se derivi in toto dall’estratto. Al ritorno del miele (come corredo aromatico, non zuccherino) mi sento di attribuire quota parte dell’inganno. Un’ora dopo la stappatura profuma anche di cedro e sa pure di cedrata. Parte dello slancio agrumato incrocia i tannini che quasi ne frenano le intenzioni. Insomma: una lotta vera, continua. Da decifrare con cura per capirci qualcosa. Mi piace? E che importa. C’è così tanto, qui, da cercare.
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