La buona notizia è che c’è un nuovo birrificio in città. Forse è perfino più rilevante che, in piena pandemia, qualcuno abbia avuto tanto pelo sullo stomaco da imbarcarsi in un’impresa del genere.
Inquadriamo la questione.
Il comparto craft italiano ha subito nel 2020 una contrazione fortissima del fatturato: durante il lockdown è mancato il consumo “fuori casa”, inoltre, essendo la vendita di birre artigianali strettamente legata al canale Ho.Re.Ca, non c’è stato neanche quel minimo temperamento correlato all’aumento di vendite registrato per le bevande alcoliche in GDO.
Quindi, grave quanto? Molto. Ecco alcuni titoli, tanto per farsi un’idea e deprimersi il giusto:
“Covid: birra artigianale, crolla il fatturato dei microbirrifici”
“Covid: CIA e Unionbirrai, -90%per birre artigianali. Serve codice ATECO specifico”
“Covid Italia, l’appello dei birrifici artigianali in crisi “Aiutateci o chiuderemo”
“L’inverno nero della birra artigianale italiana”
“Con i consumi in caduta dell’11,4% chiudono 100 birrifici artigianali”
Nel pieno di una crisi come questa non mi è parso vero di incappare in un progetto nuovissimo, considerando che il taglio del nastro data maggio 2021; birrificio figlio di un tempo ostile cui forse anche per questo mi vien da guardare con simpatia. Di che si tratta?
Siamo a Gambellara (VI), terra vulcanica sotto un manto di uve garganega. Nasce qui il Birrificio Agricolo Sorio, per iniziativa di Giacomo Maule e di Mirko Boggian. E nasce da un’idea ben precisa, quella cioè di tentare la strada piuttosto impervia del legame con il territorio (che, parlando di birre, può suonare perfino contraddittorio), battendo il percorso in autonomia, facendo sentire la propria voce.
Quindi: coltivazione in azienda di orzo (maltato poi in Austria), frumento e farro oltre a diverse varietà di luppolo; utilizzo per alcune ricette di materie prime locali; rispetto ma non soggezione nei confronti degli stili produttivi; estrema attenzione alle tematiche ambientali che li porta ad esempio a non impiegare pesticidi in campo e a usare fusti in PET riciclato.
In sintesi questa l’idea. Da realizzare per ora in una sala cottura da 600 litri a cotta e in tre fermentatori da 2000 litri. E le birre? Beh, uno dei claim aziendali è la facilità di beva per cui, al di là dei proclami, vediamo che succede dentro il Teku.
Tre le referenze provate, tutte in vetro da 0,50l:
“Flow”. India Pale Lager. 5,5%.
Bassa fermentazione che strizza l’occhio oltreoceano con abbondante uso di luppolo sia in cottura sia in fermentazione. Dorato leggermente velato. Schiuma bianca, cremosa, ben aderente. Perlage fine abbastanza persistente. Naso che, già bello da subito, migliora all’aumentare della temperatura di servizio con note di miele, camomilla e susine. Al gusto arancia amara e poi note maltate a fare da controcanto. Grandissima beva e piacevolezza al pari.
“Lander”. Saison. 6,2%.
Alta fermentazione che, nel nome, richiama l’attaccamento al territorio con impiego in ricetta di tutte le varietà di cereali coltivate (malto d’orzo, frumento e farro non maltati). Schiuma come sopra e, sotto il cappello, colore più carico rispetto alla birra precedente. Miele di castagno, sentori di panificazione che qui sono ben marcati ma bilanciati dalla freschezza quasi acidula dei cereali non maltati e da un delicato amaricante; bevuta anche qui piacevole che corre un filo appena meno veloce della Flow, ma con un bel passo.
“Gargan-iga”. Gose IGA. 5,8%.
Delle IGA ho già detto più volte. Mi piacciono e pure parecchio.
Non tutte, va detto. Ma questa sì. Rappresentazione plastica di quanto Giacomo e Mirko hanno in testa: attenzione alla produzione in ogni fase, valorizzazione della materia prima, attaccamento al territorio, rispetto degli stili birrari ma anche autonomia e voglia di sperimentare. Senza dubbio la release più complessa tra le tre provate: ci trovi il sale della Gose; l’acidulo del frumento; l’attenuazione del lievito Saison; il corredo aromatico di un 15% di mosto di uve garganega, coltivate nei vigneti di proprietà secondo i dettami del vinnaturismo (il cognome “Maule” vorrà pur dire qualcosa). L’attacco vinoso all’olfazione è evidente e lascia traccia anche all’esame gustativo, smussando l’anima “sour” di questa birra e dandole un pizzico di rotondità in più, ma neanche poi troppa…
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