Ma cosa c’è dietro a un vino così? Lasciamo da parte gli spaghetti allo scoglio, il mare e le notti brave che furono. Spostiamoci in Toscana nel Castello di Brolio, cuore del Chianti. È il 1850 e il barone Bettino Ricasoli, già Presidente del Consiglio d’Italia, non trascura la passione per il vino della sua terra. Il suo contributo è decisivo per il successo straordinario del Chianti nel mondo. Mette a punto la composizione ideale, col ruvido sangiovese opportunamente combinato: 70% sangiovese, 15% canaiolo, 15% malvasia. Un successo clamoroso. Si diffonde l’immagine del Chianti nel fiasco, ancora oggi uno dei simboli dell’italianità a tavola. La richiesta e le esportazioni crescono e alla malvasia si aggiunge il trebbiano toscano.
Passano gli anni. Ci sono due guerre di mezzo e non si va tanto per il sottile. Si bada alla quantità, soprattutto negli anni della ricostruzione. Quello dell’epoca è un Chianti commerciale, di pronta beva, semplice. Si vende il nome, l’immagine, e questo basta per un mercato senza troppe pretese. Cosa fare? Nel vino come in molte altre cose, quantità e qualità vanno poco a braccetto. Si iniziano a rivedere blandamente i disciplinari, ma intanto qualcuno non ne vuol sapere e fa di testa sua: sceglie vitigni e criteri di vinificazione. Nascono vini da tavola che sono capolavori. All’estero li chiamano Super Tuscans. Tra questi c’è il leggendario Sassicaia. L’unico vino nato prima della doc che reca il suo nome. Ma questa è un’altra storia. Alcuni si limitano a fare ottimi Chianti con il sangiovese in purezza o con modiche quantità di canaiolo, niente uve a bacca bianca. Sarebbe un peccato espiantare decine e decine di ettari coltivati a malvasia e trebbiano, ma cosa farne?
Quelle uve possono essere impiegate in altro modo, il terreno roccioso e scistoso – che si chiama Galestro – contribuisce con una blanda mineralità e moderne tecniche di cantina possono fare il resto. Possono trovare una loro collocazione, magari a tavola, un giorno d’estate negli anni ’80, tra spaghetti allo scoglio e il fritto di calamari. Profilo gradevole, struttura semplice, per non dire banale, eppure chi non l’ha piacevolmente sorseggiato? Chi non ne ha trovato un fresco e leggero compagno da tavolate estive? Perché tutti, ammettiamolo, abbiamo vissuto un’ingenua e spensierata infanzia del gusto.
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